Federico Clavarino
Uno spazio nuovo, generato dall’incontro con la realtà, dove i luoghi non hanno nome e così nemmeno le presenze che li attraversano. È un labirinto di frammenti, sagome, scorci. Il centro, la meta, altro non è che la reazione del fotografo alla loro presenza lungo il cammino. Gli scatti sembrano ricalcati sull’occhio dell’autore, tanto accompagnano il percorso girovago del suo sguardo. Tessendo una rete di rimandi, associazioni e tranelli, Clavarino si rivolge – con quella dose di ironia che solo una relazione intima consente – alla monumentale staticità del paesaggio italiano, investendola di rinnovate allegorie. Così, prima di diventare fotografie, questi frammenti sono le città di Calvino, i versi di Montale, i vuoti di De Chirico, i colori di Morandi. La storia della rappresentazione dell’Italia si manifesta, più vivida del suo storicismo. Familiare, se non riconoscibile. Antiche rovine sono interrotte dalle tracce del presente, quasi un impiccio al silenzio di questo sogno senza tempo.
Testo critico a cura di Ilaria Speri
Karl Mancini – Ghosts from the past – ECHO Photojournalism
La Cambogia è un paese in grande sviluppo. in cui gli investimenti stranieri, soprattutto Russi e Francesi, hanno cambiato le abitudini e lo stile di vita di molti. Ma, non molto lontano dalla turistica Serendipity beach di Sianoukville o dai magnifici templi di Angkor, il tanfo delle latrine si sente forte, la gente vive in condizioni disperate e le condizioni dei bambini, spesso orfani sfruttati che si aggirano per le strade a mendicare o vendere oggetti, sono allarmanti. In particolare il paese continua ad essere disseminato di mine antiuomo, triste lascito della tragica storia vissuta negli ultimi 30 anni del secolo scorso. Le mine furono utilizzate in massa dai Khmer Rossi che sono tristemente noti al mondo e presenti nelle memorie di ognuno nel paese per i 4 anni in cui instaurarono la Kampuchea Republic dal 1975 al 1979.
Durante quegli anni il loro comandante Pol Pot fu l’architetto di una delle rivoluzioni più radicali e cruente della storia dell’umanità. Occupata la capitale Phnom Penh il 17 aprile 1975 fu proclamato l’Anno Zero del paese e iniziata l’opera di trasformazione dello stato in cooperativa agraria guidata da contadini. L’intera capitale fu sgomberata, venne abolita la circolazione della moneta e il servizio postale isolando di fatto il paese. Chi si opponeva veniva giustiziato all’istante, furono massacrati gli avversari politici ed epurate intere zone del paese come quella orientale più vicina al Vietnam in cui si stanziavano popolazioni definite “corpi cambogiani con menti vietnamite”. Alle migliaia di persone uccise dai Khmer rossi nelle campagne o all’interno dei campi di lavoro in cui donne, bambini, vecchi venivano terminati a bastonate o con attrezzi di lavoro “per non sprecare pallottole” e poi seppelliti in fosse comuni molte delle quali ad oggi ancora non venute alla luce, si aggiunsero i migliaia di morti di stenti e malattie. Ai cambogiani furono tolti famiglia, cibo, terra e fede e si calcola che circa 1,8 milioni di persone morirono in quegli anni.
La Cambogia venne liberata nei primi giorni di gennaio 1979, Pol Pot e i Khmer rossi rimasti a lui fedeli si rifugiarono al confine con la Thailandia e, in seguito furono negli anni ’80 gli stessi vietnamiti che, servendosi della forza lavoro coatta locale, costruirono un campo minato di 700km lungo l’intero confine tra Cambogia e Thailandia. Dopo il loro ritiro, altre mine furono posizionate dal governo cambogiano per impedire una nuova invasione e, di nuovo, dai Khmer rossi per proteggere le zone in cui si erano rifugiati e da cui sviluppavano azioni di guerriglia fino alla morte di Pol Pot avvenuta il 15 aprile 1998.
Ancora oggi la guerra civile cambogiana continua a mietere vittime specialmente nelle campagne. I più colpiti sono i bambini e i contadini che, spesso, durante la stagione secca si stabiliscono in zone che sembrano sicure per iniziare una nuova vita per vedere i loro sogni infrangersi qualche mese dopo per la perdita o la mutilazione di un familiare, in quanto durante la stagione delle piogge il terreno si ammorbidisce liberando gli ordigni inesplosi. Nelle zone delle province di Banteay Meanchey, Krong Pailin, Oddar Meanchey, Preah Vilear, Pursat e Siem Reap operano diversi gruppi di ONG per cercare di risolvere il problema. Nella zona di Battambang si è persino formato un comitato popolare per supportare il lavoro di un ex Khmer rosso, Aki Ra, che, dopo aver seminato migliaia di mine per 15 anni, ha disertato e, dalla fine degli anni ’80 da solo ha iniziato un’opera di sminamento dei campi.
Dal 1997 ad oggi più di 150 paesi hanno firmato la Convenzione di Ottawa che vieta la produzione, l’immagazzinamento, l’uso e la vendita delle mine antiuomo. Lo scorso 7 Agosto 2014 due ex leader dei Khmer rossi, Nuon Chea e Khieu Samphan, sono stati condannati all’ergastolo da un tribunale cambogiano sostenuto dall’Onu per crimini contro l’umanità. Il primo, 88 anni, era considerato l’ideologo del regime maoista guidato da Pol Pot ed è soprannominato “il fratello n.2″. Nell’aprile 2015 ricorre l’anniversario dei 40 dall’inizio della dittura. In Cambogia ben 1 famiglia su 2 ha subito uccisioni dai Khmer rossi, molti dissidenti dei quali sono tornati ai loro villaggi e vivono la loro vita cercando di dimenticare un passato infernale.
La Cambogia ancora oggi è un paese afflitto dal problema delle mine antiuomo ed è tra i primi al mondo in cui si registrano il maggior numero di amputazioni pro capite: più di 30000 persone hanno perso arti a causa delle mine o di ordigni militari inesplosi. I più colpiti sono i bambini e i contadini. Lavorando al mio progetto “GHOSTS FROM THE PAST” ho passato quattro anni ad occuparmi del problema collaborando con ONG che cercano di risolverlo e offrono aiuto a chi ha bisogno di riabilitazione fisica e supporto medico. A quindici anni di distanza dalla firma degli accordi di pace, ancora oggi, ogni mese circa 20 persone sono vittime di questa piaga.– ENG –
Cambodia is a country with great development. where foreign investment, mostly Russians and French, have changed the habits and the lifestyle of many.
But, not very far from the tourist beach of Serendipity Sianoukville or the magnificent temples of Angkor, the stench of latrines feels strong, people are living in desperate conditions and the conditions of children, often exploited orphans who roam the streets begging or sell items, are alarming.
In particular, the country continues to be littered with landmines, sad legacy of the tragic history experienced in the last 30 years of the last century.
Even today, the Cambodian civil war continues to claim victims, especially in rural areas. It is estimated that about 16 people are affected and maimed every month by this plague, even though 15 years have been signed peace agreements and the average of the victims has fallen from that shocking 300 per month a few years ago.
The mines were used in mass by the Khmer Rouge who are notorious in the world and present in the memories of everyone in the country for four years in which instaurarono the Republic Kampuchea from 1975 to 1979.
During those years, their leader Pol Pot was the architect of one of the most radical and bloody revolutions in human history. Occupied the capital Phnom Penh April 17, 1975 was proclaimed the Year Zero of the country and began the work of transforming the state in agrarian cooperative led by farmers. The whole capital was evacuated, was abolished circulation of money and the postal service actually isolating the country. Those opposed were executed immediately, were massacred political opponents and purged entire areas of the country such as the eastern closer to Vietnam where stanziavano populations defined as “Cambodian bodies with Vietnamese minds.” To the thousands of people killed by the Khmer Rouge in the countryside or in labor camps in which women, children, the elderly were terminated with a stick or with work tools “not to waste bullets” and then buried in mass graves many of which had today not yet come to light, were joined by thousands died of starvation and disease. Cambodians were taken to the family, food, land and faith, and it is estimated that about 1.8 million people died in those years.
Cambodia was liberated in the first days of January 1979, Pol Pot and the Khmer Rouge were loyal to him fled to the border with Thailand, and later in the 80s were the same Vietnamese who, using the local forced labor, they built a minefield of 700km along the entire border between Cambodia and Thailand. After their withdrawal, more mines were placed by cambodian government to prevent a new invasion and, again, by the Khmer Rouge in order to protect the areas where they had taken refuge, and from which they developed guerrilla actions until the death of Pol Pot took place on 15 April 1998.
In 2014, Cambodia is still one of the most heavily afflicted by the problem of landmines and the one in which you record the highest number of amputees per capita more than 30,000 people have lost limbs to landmines or other unexploded military. The most affected are children and farmers, often, during the dry season are established in areas that seem safe to start a new life, to see their dreams shattered a few months after the loss or mutilation of a family, as during the rainy season the ground softens freeing unexploded ordnance.
In areas of the provinces of Banteay Meanchey, Krong Pailin, Oddar Meanchey, Preah Vilear, Pursat and Siem Reap operate various NGO groups to try to solve the problem and offer help to those in need of physical rehabilitation and medical support. In the area of Battambang has even formed a popular committee to support the work of a former Khmer Rouge, Aki Ra, who, having planted thousands of mines for 15 years, has defected and, since the late 80’s by just started demining work in the fields.
Since 1997 more than 150 countries have signed the Ottawa Convention banning the production, storage, use and sale of anti-personnel mines.
On August 7, 2014 two former Khmer Rouge leaders, Nuon Chea and Khieu Samphan, were sentenced to life imprisonment by a UN-backed tribunal cambodian for crimes against humanity. The first, 88 years old, was considered the ideologue of the Maoist regime led by Pol Pot and is nicknamed “Brother 2”, due to its proximity to the communist leader. In Cambodia, many as 1 out of 2 family has suffered killings by the Khmer Rouge, many dissidents of whom have returned to their villages and live their lives trying to forget a hellish past.
Luca Locatelli – Mega MECCA
Negli anni recenti la Mecca, uno dei 5 pilastri della religione islamica, si è trasformata in una delle destinazioni più ricercate e lussuriose del Pianeta. La crescita verticale dell’economia dei Paesi musulmani ha innalzato esponenzialmente il numero di persone che possono e vogliono visitare la Mecca, sia per il grande pellegrinaggio (Haji) ma soprattutto per il pellegrinaggio minore (Umrah): un’occasione meno impegnata e aperta tutto l’anno, dedicata alla visita dei luoghi sacri e al divertimento in famiglia. La forte richiesta di visti ha spinto il Regno Saudita a investire milioni e milioni di dollari per aumentare infrastrutture e ospitalità nel luogo sacro. Ecco perché la città sacra si trasforma in metropoli sacra. Il complesso della Bell Tower con i suoi 601 metri di altezza detiene una serie di record mondiali: l’albergo più alto del mondo, la più alta torre con un orologio, il più grande orologio da facciata e la più grande area di grattacieli. Nel 2011 l’albergo Hotel Tower è diventato il terzo edificio più alto del globo, superato solo dal Burj Khalifa di Dubai e dalla Shanghai Tower in Cina. Strade, strutture sanitarie, trasporti pubblici si sono affiancati ai grandi cantieri per il rinnovamento della Grande Moschea e di hotel extra lusso da 5 stelle in su. Oltre a 500 negozi che circondano già tutta l’area intorno alla Kaaba con i brand occidentali più apprezzati come Rolex, Ferrari, H&M, Burger King, Starbucks e molti altri ospitati nei centri commerciali che distano solo pochi metri dalla Masjid al-Haram (la più grande moschea al mondo) e dalla Kaaba, il centro sacro dell’Islam. Ma questo è solo l’inizio. Il giro d’affari alla Mecca e Medina è stimato in 120 miliardi di dollari ed è destinato a crescere se consideriamo i 20 miliardi di investimenti pianificati nei prossimi dieci anni su progetti già in corso, con un’esplosione del mercato real estate che ha visto salire il costo medio al metro quadro fino a 15mila dollari con cifre da record per le location vista Kaaba. Chi continua a immaginare musulmani a cammello in arrivo alla Kaaba rimarrà quindi deluso, nella stessa misura in cui potremmo rimanere sorpresi dall’immagine di un pellegrino cristiano a cavallo in Piazza del Vaticano. Nella stessa misura in cui è sbagliato identificare la Mecca come l’epicentro del terrorismo islamico: i picnic delle famiglie e il profumo di fiori diffuso nella piazza della Grande Moschea smentiscono un luogo comune difficile da superare. Alla Mecca troviamo semplicemente ciò che ci si aspetta anche in altri centri di gravità religiosa del mondo: souvenir, grandi architetture, musei con lunghe code di fronte all’entrata, ristoranti di lusso che si mischiano alla religione con le medesime pratiche comuni dove spiritualità, umanità e bisogni del consumismo medio della nostra società riescono a convivere pacificamente.
– ENG –
In recent years Mecca, the spiritual centre of Islam, has become one of the most sought after and luxury destinations in the world. The soaring economic growth of Muslim countries has exponentially increased the number of people who want to, and can afford to visit Mecca, both for the grand Hajj pilgrimage and, above all, for the minor Umrah pilgrimage, which is a less demanding, year-round occasion for visits to the holy sites and for general family entertainment. The pressing demand for visas has stimulated the kingdom of Saudi Arabia to invest millions and millions of dollars on improving and increasing the infrastructure and hospitality of the religious centre. And this has transformed the sacred city into a sacred metropolis. The 1,970 feet high Bell Tower complex detains several world records: the highest hotel in the world, the highest clock tower, the clock with the biggest face and the largest surface area of skyscrapers in the world. In 2011, Hotel Tower became the 3rd tallest building in the world, exceeded only Burj Khalifa in Dubai and the Shanghai Tower in China. Roads, health centres and public transportation have been added to the large construction sites for renovation of the Great Mosque and for building super luxury hotels with five stars and above. These luxurious new buildings will complement the more than 500 shops that already exist in the area surrounding the Kaaba, where they sell top Western brand names such as Rolex, Ferrari, H&M, Burger King, Starbucks, and many more can be purchased in the shopping centres near the Masjid al-Haram (the largest mosque in the world) and the Kaaba, the most sacred Muslim site in the world. But this is just the beginning. The combined business turnover of Mecca and Medina is considered to be 120 million dollars a year, a figure which is destined to grow even more. Twenty billion dollars will be invested over the next ten years on projects already underway, causing a real estate market explosion that has pushed the average price up to 15,000 dollars per square meter, with record peaks for locations with a view of the Kaaba. If you still think Muslims arrive at Mecca on the back of a camel, you’d be as disappointed as you would be suprised to see a Christian pilgrim arriving in St. Peter’s square on horseback. By the same token, anyone who imagines Mecca to be the epicentre of Islamic terrorism would be disappointed to discover the peaceful family picnics and copious scent of flowers that pervade the square in front of the Great Mosque. What we find at Mecca is precisely what we can find in any other major religious centre around the world: souvenirs, impressive architecture, museums with endless queues to get in, and classy restaurants alongside the common rites and practices of a religion whereby spirituality, humanity and the needs of our consumer society peacefully coexist.
Melissa Carnemolla – 13 IV 1941
C’era una volta Marina di Ragusa, un piccolo paese sulla costa sud orientale della Sicilia, popolata soprattutto da pescatori. Io vengo da quel posto, dove persone semplici e modeste erano abituate a vivere un’esistenza perlopiù monotona, talvolta imprevedibile. Un po’ come lo stesso mare, in fondo. Ma non è di questo che parla la mia storia.
Nel giugno 1940 la calma di Marina di Ragusa venne messa a soqquadro dalla Seconda Guerra Mondiale. Le persone dovettero presto abituarsi a mettersi al riparo dai bombardamenti, tanto quanto a vedere spesso il cielo solcato dagli aerei che decollavano dalla base nelle vicinanze.
Il 13 aprile del 1941, alle 10.30 del mattino, un aereo militare tedesco precipitò, senza nessuna ragione, su Marina di Ragusa. Era il giorno di Pasqua e lo schianto avvenne poco lontano dalla chiesa dove si stava celebrando la messa del giorno di festa.
L’aereo, carico di bombe, distrusse una vasta area della cittadina. I cinque militari tedeschi a bordo morirono sul colpo, e altrettante furono le vittime locali. Fra queste due bambini, che entrambi sarebbero stati miei parenti: la sorella di mia nonna e la sorella di mio nonno.
Ho 24 anni adesso. Sono nell’età in cui le domande ti “bombardano”. Mi chiedo spesso cosa sarebbe successo se l’incidente non fosse avvenuto il giorno di Pasqua e, quindi, quelli che in futuro sarebbero diventati i miei nonni fossero stati a casa. Io non sarei esistita, ad esempio. Non si può trovare risposta a certe domande. E’ un po’ il senso stesso della vita. Per questo ho cercato tramutare il mio non poter essere testimone di quel giorno in simboli, e raccontare lo stesso il 13 aprile del 1941.– ENG –
There was once Marina di Ragusa, a small village on the South-East coast of Sicily, mostly inhabited by fishermen. I belong there, where simple and modest people were used to live in a monotonous and also unpredictable way. Like the sea itself. This story doesn’t come from it, though. In June 1940, the calm of the town was upset by the beginning of World War II. People got soon used to take shelter from the bombardments as well as their flying area became the headquarter of the air military operations. On April 13th, 1941, at 10.30am, a German military plane crushed, without any reasons, on Marina di Ragusa. It was the Easter-day and it happened not far away from the full Church where the Mass was being celebrated. The plane, geared by bombs, destructed a wide area of the village. Five German soldiers as well as five inhabitants died. Amongst them, there were two children, both my relatives: the sister of my grandmother and the sister of my grandaddy. My parents were both at Church. I’m 24 years old by now. So many questions ‘bombard’ my mind on what would have been happened in other circumstances. What, if it hasn’t been the Easter-day therefore my grandparents would have been at that same house? Well – I couldn’t be here to tell this story. But I could. Should I thank the destiny or the Lord? There are no answers for certain questions. Like the meaning of life itself. So I have tried to shape the emptiness into symbols – the only ones we can be sure of.
Michele Sibiloni – Fuck it
Tutti gli animali escono quando cala la notte..
Uova rotte, ginocchia sbucciate, ragazzotti che ridono, gru dalla lunga cresta, branchi di cani, un uomo con gli occhi spalancati e una pistola in mano. Le storie raccontate da queste sporche vignette sono allo stesso tempo un fumetto e un archivio dell’effimero, una sinfonia Africana e una catastrofe del terzo mondo, una palpatina maliziosa e un sorrisetto colpevole. Una volta un blogger dei Corpi di Pace ha descritto il più accattivante e squallido quartiere a luci rosse di Kampala, come la “Tijuana sotto acido”. Ha poi continuato descrivendo il modo in cui alcune ragazze in un bar abbiano provato a sedurre sia lui sia la sua ragazza, mentre mostravano loro le foto dei figli sui loro smartphones. Lui era scioccato e nauseato.
Un tipo di safari completamente differente verso le protette crociere nel Queen Elizabeth Park; una bella differenza dal viaggio che Mama e Papa Okello fanno dal villaggio della missione benefica fino alla nuova pompa dell’acqua.
Non possiamo biasimare se il blogger dei Corpi di Pace ne resti sorpreso dato che l’Uganda ha egregiamente dimostrato alla comunità internazionale di essere un luogo affidabile per avere aiuti e essere supportato nella crescita da circa trent’anni. Nel 1986 il paese è sopravvissuto ad una guerra civile durata 8 anni, seguita da una dittatura di ulteriori 7 anni a seguito di circa settant’anni di un governo colonialista e sfruttatore. E’ stato l’epicentro dell’AIDS. Mentre veniva presentata al mondo una facciata di cultura borghese in fiore e un ritorno ai valori religiosi, Kampala vive una delle più folli notti d’Africa. Questa è la parte macabra: gli angeli caduti della dissolutezza e della disperazione. Questo è il futuro: ragazze troppo giovani e sfrontate con abbastanza soldi da poterli bruciare – feste in piscina e capelli biondi platino – questo è il passato: soldati Askari con le frecce; donne con carichi da soma; i militari sulle jeep aperte. Questa è la contraddizione: una città di puritani alcolizzati e di prostitute che la danno gratis. Questa è la disgrazia: una guardia addetta alla sicurezza guadagna $1 al giorno e una corrotta classe politica che approva leggi sulla moralità. Queste sono avventure notturne. Le bestie non addomesticate dell’Africa di oggi, il rosso delle labbra e degli artigli di branchi incontrollabili di esaltata demenza.
Regine guerriere dell’Amazzonia fiere e inscrutabili, con lingue affilate e ginocchia ancora più affilate per smembrare bianche palle. Vittime distrutte dalla povertà, prostrate dalle tragedie e succubi di un’economia senza pietà. Vivere, amare, ridere. Aggrappati a tutto questo con occhi affamati e passaci attraverso con annoiato distacco. Se ti fa sentire bene, versa pure qualche lacrima amare di impotenza su pagine immacolate. Agli occupanti non importa se li compatisci o invidi. Alla fine, le loro vite e le calde notti, continueranno ad essere.
Peter Bauza – Copacabana Palace
Le persone che vivono qui lo hanno ribattezzato con il nome di un meraviglioso resort di lusso adagiato su una delle spiagge più famose di Rio de Janeiro: Copacabana Palace. Eppure, in questo posto, nulla rimanda alla benché minima idea di ricchezza. Manca tutto per definirlo anche soltanto vivibile. Eppure, questo posto è l’emblema di tutto quello che si può incontrare in Brasile, dai suoi lati radiosi a quelli più bui.
Questa è la storia di una serie di persone che cerca di rimanere in equilibrio sul sottile confine fra sopravvivere e precipitare. E’ la storia delle loro sofferenze tanto quanto le loro gioie, della loro forza così come la loro debolezza. Dei sorrisi, dei pianti, dei fallimenti, dei successi. E’ la storia di chi, ogni giorno, cerca di sopravvivere e superare una situazione ostile. Loro rappresentano l’icona degli innumerevoli problemi sociali che attraversano il nuovo Brasile (quello bello e vanitoso delle Olimpiadi, dei Mondiali di calcio, dei giochi Panamericani). Sono la polvere da nascondere sotto il tappeto, un problema che va tenuto abbastanza lontano da poterlo, semplicemente, ignorare.
Questa è la storia di Jambalaya (dal nome di un famoso show televisivo), un quartiere di “sem tetos” che oltre 10 anni fa occuparono una serie di condomini costruiti per la nascente classe media nell’area di Campo Grande, a circa 60 km dalla capitale carioca dalla società OAS. Come spesso succede in questo paese, una serie di difficoltà sopraggiunte (non ultima la corruzione) impedirono di completare l’opera edilizia. Niente di più facile, dunque, che queste cattedrali nel deserto diventassero facile preda di senza tetto, delinquenti, trafficanti. A qualcuno la casa fu assegnata nell’ambito di un programma di assistenza sociale, ma non potè mai prenderne possesso a causa delle gang occupanti. Oggi sono quasi trecento le famiglie che risiedono nelle varie palazzine. Inesistenza delle infrastrutture di base, violenza, droga, prostituzione: non manca nulla a Copacabana Palace. Così come non manca la leggerezza tipica dei brasiliani, il loro feroce attaccamento alla vita, la ricerca della felicità, la convinzione che tutto, sempre, possa cambiare in meglio.
Mentre il Brasile sperpera miliardi in infrastrutture che attraggano attenzione internazionale, prestigio e turisti, milioni di persone restano per strada, o – come se la cosa costituisse un sollievo – nelle favelas. Le tanto sbandierate politiche anti povertà si sono rivelate, nella migliore delle ipotesi, inefficaci; più spesso rivolte a beneficio di altri soggetti. Ma questa è la storia che il mondo non deve sapere.– ENG –
The UN reported that more than one billion people of the world’s residents live in inadequate housing, mostly in the sprawling slums and squatter settlements in developing countries. The Habitat Agenda, Paragraph 60 gives the precise explanation what it is considered an adequate shelter and not only a roof over one’s head. The cost of doing nothing may be even greater, as the new urban slums are potential breeding places for social and political unrest. Brazil and this “Jambalaya/Copacabana Palace” is not an exemption, despite having ratified the international UN treaties related to “Human Rights” on the 6th of July 1992, and having incorporated them into the national legislation through Decree 591 (constitution of Brazil 1988 – artigo 5, 2. e. 3). The people of “Copacabana Palace” are the “sem tetos, sem terras, sem moradias”. Generally hidden from view, they represent the dark side of Brazil’s multibillion-dollar spending spree on global sporting events such as the 2007 Pan American Games, the 2014 FIFA World Cup, and the 2016 Olympics. There are thought to be several million people in Brazil without a stable roof, homeless and landless, and the number is rising. Despite government housing schemes and anti-poverty policies they face a bleak future. Pressure groups who fight for the homeless claim that there are more than 5 million empty rooms and apartments in Brazil. Squatters who occupy such abandoned spaces and try to make them livable often face police hostility or eviction. Over 300 families have found a kind of refuge here; a place that is ironically also called “Copacabana Palace” besides many other names like Jambalaya, as per the Brazilean TV-Show, or Carandiru as per the famous state prison in Sao Paulo. It is a condominium complex that was built over 30 years ago but which, due to serious construction and financial problems, was never finished and has been occupied. Life here is hard: the basics — like fresh water on all floors, a working sewage system, and stable electricity — are missing. Lack of sanitation causes serious health problems; such as dengue fever, tuberculosis, meningitis, gastroenteritis, and skin diseases. Hall floors are already collapsing in several buildings, allowing one to see through the floor to next level.
Many of the people living here come from communities known as favelas. They have escaped from confrontations with drug dealers; or they can no longer afford monthly rent increases; or they have simply been living on the streets with no protection. Even worse off are those who were given social housing in a government program. Due to the presence of drug gang families that often surrounded or occupied these housing complexes, they could never occupy their new home. But the people who live here are survivors. They usually subsist on monthly incomes between 80 and 250 USD, or live on the $15 to $100 they get from the government subsidy called the Family Basket. Most of them cannot count on regular employment and so become self-employed in the informal economy; as day laborers, or selling homemade food or soft drinks on the streets and highways. They all dream big… “a dream of an own stable home”. In the last decade the government had proposed low interest housing programs that would provide housing relief under certain conditions. But there were miles of red tape and long waits; so getting such housing was often a matter of luck. Unfortunately promises, which are made during the election campaigns, are often never fulfilled. This is a story of people trying to balance themselves on the narrow precipice between surviving and thriving. It’s is about their sufferings, their weaknesses and strengths, their failures as well as their success in the everyday efforts to survive, and rise above, a hostile situation. But nobody speaks about them. In a few words, near enough to participate of the richness and far enough from Rio de Janeiro to be simply ignored. But this rusty, smoked and grey walls have a lot more to tell. This work represents their story, a sharing life with these great people, trying to reveal their everyday life: their happiness, sadness, needs, illusions, communities, and their strengths. This is home life for millions of Brazilians.
Sara Camilli – Sei piani di storie
Sei piani di storie è un lavoro iniziato un anno fa lentamente, letteralmente senza fretta. Sara Camilli è interessata alle periferie della sua città, Roma. Dopo un’esplorazione fotografica della Tiburtina, approda al Quarticciolo, quartiere popolare di Roma Est. Inizialmente vaga, si guarda intorno, entra nei bar, parla con le persone, ascolta i discorsi degli anziani. Infine trova il suo luogo, una vecchia questura abbandonata e occupata da quindici anni. Sei piani, vari nuclei ricavati dagli spaziosi uffici dell’ex questura, in cui famiglie coppie, uomini e donne lottano ogni giorno per costruire e costruirsi un’alternativa. Sara riesce ad entrare in alcune situazioni famigliari, le viene assegnata una stanzetta dove può dormire quando lavora fino a tardi. Non ha fretta di chiudere il lavoro, ha bisogno di tempo per conoscere ancora meglio gli abitanti del palazzo. Il suo approccio è silenzioso, non intende giudicare, cerca di capire come si lotta per un diritto di tutti, la casa, mentre lo scandalo Affittopoli è sotto gli occhi di tutti.
Periferia: perí intorno e pherein portare. Contornare, confinare. Quando si parla di periferia, il richiamo a visioni semplicistiche e condivise è immediato. Vengono definite come zone di margine, d’illegalità, di criminalità, come spazi di transizione, di degrado e liminalità. Senza demistificare, aggiungo a questo quadro il mio sentirle come zone liberate, con tutta la sofferenza che la libertà viva si porta appresso. Spaccati vividi, lucenti, puri, reali. Possibili. Inaccessibili da una parte e abbandonati dall’altra, costretti a reinventarsi per resistere.
Sono sempre stata affascinata da chi, per caso o per scelta, è rimasto immune alla violenta influenza delle griglie culturali e alla stretta gabbia delle aspettative condivise di sistema. Ho sempre osservato queste persone con incanto, febbre e amore. Sono certa però che se mi ci fossi davvero con-fusa non sarei più stata in grado di guardare e di raccontare così tanta bellezza. Sono diamanti che la città nasconde, come fili rossi, ognuno a sé e tutti uniti dentro e dietro questi frammenti visivi di vita e virtù. Cinzia, Marco, Simone (Usiello), Sonia, Sabrina, Elisa, Nicholas, Giulia, Loredana e tutti gli altri che verranno e che lotteranno ogni giorno per costruire e costruirsi come alternativa. Con una forza e una convinzione che non avevo mai visto prima e che ho cercato di catturare per proteggerla e farla risplendere.– BIO –
Sara Camilli, laureata in antropologia visiva, ha conseguito due master in fotogiornalismo e fotografia autoriale presso Officine Fotografiche Roma. Attualmente lavora ad un progetto a lungo termine legato ai suoi interessi: la marginalità e le dinamiche sociali che ruotano intorno alla vita di confine. Le periferie romane sono al centro della sua ricerca.
Sara Camilli, 31 anni, laureata in antropologia, storia e linguaggi delle immagini: Nell’ambito universitario ho realizzato diversi progetti fotografici improntati sull’analisi della costruzione delle immagini ai fini di ricercare come si strutturano e veicolano comunicazioni attraverso l’uso della fotografia. In particolare ha realizzato un video , girato a l’Aquila, qualche giorno dopo il terremoto per ricercare come il dolore viene tradotto in immagini e viene codificato per esser condiviso dalla comunità. Ragionando successivamente sull’utilizzo della fotografia nella rappresentazione del dolore tra etica ed estetica. Successivamente ha lavorato per 9 mesi in una casa famiglia per immigrati minori stranieri da settembre 2011 a giugno 2012 tenendo un corso di fotografia per gli utenti della casa famiglia. Lì ha cercato di utilizzare la funzione identitaria della fotografia, un vedersi esistere attraverso le immagini che in quel contesto di spaesamento sia geografico che culturale andava a creare e/o rafforzare sentimenti di comunità e consapevolezza. Ha realizzato per questa associazione un reportage sul cricket, sport praticato dalla maggioranza dei ragazzi residenti nella casa. Il risultato del lavoro è convogliato in una mostra fotografica in un locale(spazio informale) sito a Circo Massimo Roma con a seguito un convegno sull’integrazione e la possibilità di creare un integrazione sociale attraverso l’uso della fotografia. A giugno 2014 termina il suo percorso presso Officine Fotografiche seguendo il master di fotogiornalismo e affrontando una tematica vicina al suo punto d’interesse. La marginalità e le dinamiche sociali che ruotano intorno alla vita di confine. Il lavoro “Ammargine” è stato esposto a Foto leggendo ,a Savignano immagini e ha ricevuto una menzione d’onore al festival di fotografia di Foligno. A gennaio 2016 vince come primo classificato il concorso “oltre le mura di Roma” con a seguito un’esposizione al macro di testaccio Roma. A novembre 2015 vince una borsa di studio al centro sperimentale di fotografia Adams che le rende possibile continuare i suoi studi nell’ambito del fotogiornalismo e contemporaneamente segue il secondo master a officine fotografiche focalizzato sulla fotografia autoriale. Attualmente lavora ad progetto a lungo termine: un’occupazione abitativa all’interno di un quartiere periferico di Roma est. Il Quarticciolo. Affrontando così una tematica vicina al suo punto d’interesse. La marginalità e le dinamiche sociali che ruotano intorno alla vita di confine. Le periferie romane sono il centro del suo lavoro. Camilli ha sempre unito la fotografia alla ricerca antropologica: sono ambiti e strumenti che si compenetrano, prendendo qualità gli uni dagli altri :“La conoscenza, il dialogo, il tempo utilizzato per conoscere la realtà che voglio raccontare, l’immersione totale nel contesto che ho deciso di analizzare, l’attesa che sa di avvicinamento, sono parti fondamentali di ogni lavoro fotografico che intendo realizzare. Mi hanno chiesto molte volte perché fotografo ,e io rispondo che ho sempre “visto” fotografie, Ho semplicemente accostato all’occhio e al mio sguardo, una macchina
Simone Sapienza – Charlie surfs on Lotus Flowers
Circa quarant’anni dopo la vittoria dei Viet Cong contro gli Stati Uniti d’America, il Vietnam ha radicalmente cambiato le sue ambizioni. Infatti, supporto da una popolazione giovanissima e piena di energia, il Vietnam è destinato a diventare la prossima Tigre Asiatica a farsi strada. Del resto quasi il 95% della popolazione è a favore di una economia a mercato libero di tipo capitalista, mentre secondo gli esperti il Vietnam è considerato uno dei paesi con l’economia più in crescita in scala mondiale fino al 2050. Così come il fiore di loto, simbolo nazionale del Vietnam, riesce a sbocciare con ineguagliabile bellezza sulle superfici di acque paludosi, metaforicamente anche il Vietnam è pronto a mettere alle spalle il suo tragico recente passato per un futuro prospero. Tuttavia, nonostante una libertà sempre più ampia in ambito economico ed un crescente ottimismo nella nuova generazione, il potere politico è ancora in mano al governo Comunista. Guida da un solo partito esistente, la dittatura ancora esercita un potere assoluto in Vietnam, a dispetto dell’illusoria libertà economica. “Charlie surfs on Lotus Flowers” è sin dal suo stesso titolo una rappresentazione metaforica delle società dello spettacolo in Vietnam dove, nonostante l’ordine e il controllo gravato dal potere Comunista, la nuova generazione vuole cavalcare l’onda del nuovo sviluppo economico.
– BIO –
Simone Sapienza (Catania, 1990) è un fotografo documentario, recentemente laureatosi in Documentary Photography presso la University of South Wales a Newport. Recentemente è stato proclamato vincitore del BJP Breakthrough 2016 con il progetto “Charlie surfs on Lotus Flowers”. Precedentemente, con il progetto “Somewhere in Somalia there is a little girl called Cardiff”, è arrivato finalista sia al Premio Tabò 2015 a Fotoleggendo che al New Generation Prize istituito dal Photographic Museum of Humanity – Grant. Nel 2014 è stato tra i vincitori del concorso PDN Edu ed è stato nominato come “Moving Image Photographer of the Year” ai Lucie Awards di New York. Infine, nel 2012 fu il vincitore del concorso portfolio della prima edizione di Ragusa Foto Festival, a cura di Maurizio Garofalo. Ha recentemente partecipato al progetto culturale di residenza artistica Urban Layers, esponendo nel 2016 all’interno dei festival di Malaga (Spagna), Salonicco (Grecia), Gibellina Photoroad (Italia) e Bitume Photofest (Italia). Prossimamente, inoltre, sarà in mostra all’Umbria World Fest 2016 (Foligno, Italia) e al Pingyao International Photography Festival 2016, in Cina. Nel 2015 ha co-fondato “Gazebook – Sicily Photobook Festival”, giunta alla seconda edizione a Settembre 2016. Catania, 1990. Vincitore di Ragusa Foto Festival 2012, dal 2013 studia Documentary Photography presso la USW a Newport. Nel 2014 è stato tra i vincitori del PDNEdu e nominee come Multimedia Photographer of the Year ai Lucie Awards. Nel 2015, il progetto allegato è stato finalista al Photographic Museum of Humanity ed in mostra a Fotoleggendo per il concorso Premio Tabò. E’ cofondatore di Gazebook.